Sono contento di sentire che state bene.
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza: un film composto da una serie di piani sequenza, profondi e lenti, che lasciano allo spettatore il compito – e anche il tempo – di cogliere i dettagli; scene che alternano interni di bar, musei, negozi, sale da ballo, camerette, ambulatori, esterni di ville; inquadrature “dipinte” con colori tenui, ocra, verdognolo, forse ispirate al quadro del 1565 “Cacciatori nella neve” di Pieter Bruegel il Vecchio dove, appunto, qualche piccione sembra osservare le persone che sotto di loro si applicano a varie attività umane e forse si interroga sul senso della loro esistenza.
Sono contento di sentire che state bene: una frase che si ripete come un mantra per tutto il film, che sottolinea le peripezie di tristi personaggi che cercano di vendere denti di vampiro o scatole che ridono; così come di potenti – maschere diafane – che brindano di fronte allo spettacolo della sofferenza; sequenze che vogliono svelare – e secondo me ci riescono – la miseria dell’esistenza umana, la nostra esistenza, nella sua più autentica accezione simbolica, metafisica.
Si, proprio la nostra, perché ogni singola scena del film ci fa sentire parte di quell’immaginario, non spettatori ma protagonisti di quella miseria; un racconto che sfugge a qualsiasi ancoraggio di tempo e di luogo, non ci lascia alibi: quegli uomini siamo noi.