Notizie che galleggiano senza sapere da dove vengono.
È ormai da troppo tempo che la questione è in discussione, senza che si trovi una via d’uscita credibile, efficace e democratica.
Mi sembra giusto mettere a confronto due aspetti che insieme concorrono a garantire una corretta informazione in rete.
Fake news. Ci troviamo sommersi da notizie non verificate o create ad arte che galleggiano sul web senza controllo e spesso senza che sia possibile attribuirle a una identità riconosciuta.
Copyright. Gli editori lamentano un uso improprio e gratuito delle informazioni che producono da parte dei principali social network.
È indubbio che occorrerebbe contrastare la diffusione di notizie false. I social network lo hanno finalmente capito. Le ultime dichiarazioni di Zuckeberg suonano come un’assunzione di colpa e una promessa d’impegno per il futuro.
È peraltro altrettanto vero che la migliore medicina contro l’informazione inaffidabile è la diffusione di notizie verificate, prodotte da entità riconoscibili. Educare a discernere tra vero e falso è, nel lungo periodo, l’unica soluzione credibile. Fare troppo affidamento al contrasto e cancellazione, considerando anche i rischi di arbitrarietà di chi la gestisce, apre a rischi di censura: si può finire con il buttare il bambino con l’acqua sporca.
Ed ecco che allora la questione del copyright posto con forza dagli editori diventa centrale.
Recentemente il Parlamento Europeo sembra volere costringere Google, Facebook e le altre piattaforme web a pagare gli editori per mostrare frammenti di notizie. Per contro gli stessi soggetti rivendicano di garantire alle informazioni prodotte dagli editori livelli di diffusione impossibili da raggiungere fuori dai loro canali.
La questione non è semplice, ma dalla sua soluzione dipende buona parte del nostro futuro: senza informazione corretta e capacità di formarsi una propria convinzione sulla base di dati verificati e credibili ci ritroveremo in un far west dove solo chi strilla di più l’avrà vinta.
Chiudiamo riportandovi il pensiero di Guy Kawasaki, 63 anni, venture capitalist della Silicon Valley ed ex «chief evangelist» di Apple, intervistato il 21 Giugno 2018 a Milano per il Digital Convergence Day promosso da The Digital Box in collaborazione con l’Università Bocconi.
Forse verrà il momento in cui la gente capirà che è giusto pagare per le notizie di qualità. Io pago per leggere il Washington Post. Forse molti decideranno di pagare una piccola somma anche per proteggere la privacy sui social network.
Il testo integrale dell’intervista lo trovate sul Corriere della Sera.